Biblioteca A. Torri - La collezione di Prose e poesie liriche di Dante Allighieri

Scheda a cura di Selene Maria Vatteroni

 

Subito dopo essere arrivato a Pisa, nel 1826, Torri mette mano al «più che ventenne» progetto di procurare l’edizione di tutte le opere di Dante, un’impresa che l’avrebbe ripagato del dolore dell’esilio dalla sua città natale: come dirà in una nota alla prefazione della Vita nuova, per altro citando scopertamente Pd XVII 22, è infatti solo nello studio di Dante che

 

"trovarono qualche conforto le incresciose vicende della mia vita; avendomi egli insegnato ad esser tetragono ai colpi di sventura, ed a soffrire con dignitosa rassegnazione." (Vn, p. XXIV n. 23)

 

Tra il 1827 e il 1829 Torri pubblica il trecentesco Ottimo commento alla Commedia [>>] riproducendo il testo del poema secondo l’edizione della Crusca, mentre è solo negli anni Quaranta che avvia l’edizione delle opere minori di Dante, la collezione Delle prose e poesie liriche di Dante Allighieri. Prima edizione illustrata con note di diversi. Tra il 1842 e il 1850 escono quattro dei sei volumi previsti nel piano dell’opera:

 

"- Epistole di Dante Allighieri edite e inedite, aggiuntavi la Dissertazione intorno all’acqua e alla terra e le traduzioni respettive a riscontro del testo latino, con illustrazioni e note di diversi, per cura di Alessandro Torri veronese, dottore in belle lettere e socio di varie Accademie, Livorno, Vannini, 1842."

 

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"- Vita nuova di Dante Allighieri, edizione XVI a corretta lezione ridotta mediante il riscontro di codici inediti e con illustrazioni e note di diversi, per cura di Alessandro Torri veronese, dottore in belle lettere e socio di varie Accademie, Livorno, Vannini, 1843."

 

La collezione di Prose e poesie liriche di Dante Allighieri 2 La collezione di Prose e poesie liriche di Dante Allighieri 3

 

"- La Monarchia di Dante Allighieri col volgarizzamento di Marsilio Ficino tratto da codice inedito della Mediceo-Laurenziana di Firenze, con illustrazioni e note di diversi, Livorno, coi tipi degli Artisti Tipografi, 1844."

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"- Della lingua volgare di Dante Allighieri libri due, tradotti di latino da Giangiorgio Trissino e ridotti a corretta lezione col riscontro del testo originale, edizione XVII aggiuntevi le note di diversi, per cura del dottore Alessandro Torri di Verona, Livorno-Firenze, Niccolai-Gamba-Molini, 1850."

 

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Scorrendo i manifesti di associazione riuniti nella Miscellanea 28 ci si accorge di come, nei più di vent’anni che passano tra il primissimo progetto di edizione e l’uscita del primo volume, il piano editoriale cambi sensibilmente:

- nel 1818, dunque ancora a Verona, Torri annuncia il progetto di «ristampare in un volume tutte le Prose italiane di Dante» (non si tratta ancora di un vero e proprio manifesto di associazione; esso inoltre non si è presente nella Misc. 28, ma è riprodotto in Vita nuova, p. XXVI n. 27);

 

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- nei manifesti pisani del 1833, 1835 e 1839 i volumi diventano due, il primo con la Vita nuova e il Convivio, il secondo con le Epistole, la Monarchia (accompagnata dal volgarizzamento di Ficino) e il De vulgari eloquentia (cfr. rispettivamente Misc. 28, num 32/3, 32/4 e 32/6);

 

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- nel 1841, nel manifesto della stamperia dei fratelli Nistri, la collezione comincia a prendere la forma che in capo a un anno sarà quella definitiva, accogliendo, accanto alle prose, anche le Rime– che in precedenza Torri aveva scelto di escludere per le molte questioni attributive ancora irrisolte, come afferma nella prefazione della Vita nuova, spiegando poi che l’ormai progettata edizione delle rime avrebbe completato la ristampa della Commedia nell’edizione dell’Ottimo commento – e articolandosi in cinque volumi, con il De vulgari e le Epistoleriuniti insieme (cfr. Misc. 28, no 32/8);

 

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- infine nel 1842, nel manifesto del “Gabinetto scientifico-letterario di Livorno” firmato dal direttore Silvio Giannini, si annuncia la collezione definitiva in sei volumi, uno per ciascuna opera, nell’ordine: Vita nuova (vol. 1), Convivio (vol. 2), Monarchia (vol. 3), De vulgari eloquentia (vol. 4), Epistole e& Quaestio de acqua et terra (vol. 5), Rime (vol. 6) (cfr. Misc. 28, no 33).

 

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In quest’ultimo manifesto si precisa che a uscire per primo sarà in realtà il volume delle Epistole, allo scopo di soddisfare «la giusta curiosità degli eruditi» intorno agli inediti in esso contenuti: non solo la Quaestio de acqua et terra,

 

"quasi tradizionalmente cognita appena a pochi bibliografi, comechè da qualcheduno di essi soltanto veduta, e sconosciuta generalmente per l’estrema sua rarità, non essendo stata impressa che una volta in Venezia nel 1508[;]" (Ep, p. XIX)

 

ma anche nove lettere – al cardinale Niccolò da Prato (i), ai conti Oberto e Guido da Romena (ii), a Moroello Malaspina (iii), ai principi e signori d’Italia (v), ai fiorentini (vi), ad Arrigo VII (vii), a Margherita di Brabante a nome della contessa di Battifolle (viii-x) – che per primo Torri pubblica secondo la lezione dell’autorevole ms. Palatino latino 1729 della Biblioteca Apostolica Vaticana (nell’introduzione alle Epistole Torri afferma brevemente di essere stato a Roma per collazionare di persona il manoscritto vaticano, rimandando ai due allegati al manifesto livornese – una sua lettera a Gottardo Calvi dell’8 aprile 1842 e un articolo dello stesso Calvi apparso sul «Giornale fiorentino di commercio» nell’agosto dello stesso anno – in cui si racconta di questo viaggio).
Oltre a ciò, i volumi 2 e 6 non vedranno mai la luce: le Rime sembra non siano mai state nemmeno allestite, mentre il Convivio, che in una lettera al dantista tedesco Karl Witte di fine 1852 Torri si dice pronto a stampare, [1] è sempre rimasto allo stato di bozza [>>], verosimilmente a causa delle difficoltà economiche che l’editore lamenta fin da due anni prima nella corrispondenza con l’amico Filippo Scolari. [2]

Al di là dell’anticipazione dell’uscita delle Epistole, il volume più significativo soprattutto per l’importanza della sua prefazione – già apparsa sul «Nuovo giornale de’ letterati» del 1839 – rimane il primo, quello della Vita nuova. Nella prefazione, infatti, Torri afferma per la prima volta il proprio strettissimo legame con la scuola filologica veronese del secondo Settecento, presentandosi come esecutore del progetto editoriale che il suo «preclaro» concittadino Giovanni Jacopo Dionisi (1724-1808), canonico della cattedrale di Verona e studioso di Dante, non aveva fatto in tempo a realizzare.

 

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Il Piano per una nuova edizione di Dante del Dionisi, contenuto nel secondo dei suoi Aneddoti (Verona, 1786), va letto alla luce dell’impostazione metodologica dionisiana, del tutto inusuale tra i letterati del suo tempo: il canonico veronese predica infatti un approccio erudito e filologico all’opera dantesca, mirato all’esegesi letterale in primo luogo della Commedia, lasciando da parte le questioni estetico-letterarie e le discussioni sullo stile che invece impegnano la maggior parte dei suoi contemporanei – anzi, prendendo le distanze dalla condanna tipicamente settecentesca dell’oscurità di Dante con un elogio pieno della sua poesia. Intorno al Dionisi, che avrebbe voluto istituire una «piccola Accademia privata» per gestire l’«impresa» dell’edizione, ruotano intellettuali del calibro di Bartolomeo Perazzini, autore delle importanti Correctiones et adnotationes in Dantis Comoediam (1775) e definito da Sebastiano Timpanaro «filologo di statura europea», ma anche figure di minore statura come quella dell’abate veronese Santi Fontana, che era stato docente di Torri al Seminario vescovile di Verona e prima di lui aveva pensato di portare a compimento il Piano del Dionisi ‒ come si evince da una sua lettera a Torri del 14 maggio 1833 (riprodotta in Vita nuova, pp. XXV-XXVI n. 26), in cui l’abate dà conto delle difficoltà, anche economiche, che gli impedirono di realizzare questo progetto. È evidente che, come ha scritto Aldo Vallone, il movimento «d’idee, di metodo e di questioni» promosso dalla cerchia dionisiana non è «un fatto di critica municipale», bensì una fase cruciale dello sviluppo degli studi danteschi in Italia fino alla nascita della moderna filologia dantesca tra Otto e Novecento. Nel frattempo, però, almeno tutta la prima metà dell’Ottocento guarda alla lezione filologico-erudita del Dionisi con una certa insofferenza, considerandola superflua rispetto alla lettura sentimentale e patriottica dell’opera di Dante, emblema dell’unità e identità nazionali: a maggior ragione, dunque, è notevole che già negli anni Quaranta Torri raccolga l’eredità intellettuale e faccia propri il metodo e gli obiettivi del filologo veronese, come emerge chiaramente dal confronto tra il Piano per l’edizione di Dante Alighieri e le prefazioni ai singoli volumi delle Prose e poesie liriche.
Il legame con Dionisi è evidente fin a livello ‘esterno’: come il canonico si era avvalso della collaborazione di Santi Fontana, così Torri gode del generoso aiuto di un altro veronese, l’amico Filippo Scolari, ringraziato pubblicamente nella prefazione della Vita nuova, che fin dal 1832 gli fornisce suggerimenti e materiali per l’edizione – come si evince da una sua lettera del luglio di quell’anno citata anche nel manifesto di Giannini. Oltre ad assicurare, per questa via, la continuità della tradizione veronese della filologia dantesca, Torri ribadisce il legame della propria edizione con la città natale dedicando ciascun volume a un cittadino illustre di Verona: particolarmente significativa è la dedica al conte Piero degli Emili, che riceve le Epistole in nome del suo «patrio affetto» per Dante.

A livello ‘interno’, poi, la connessione con Dionisi si rivela profonda e sostanziale. Innanzitutto, per Torri come per Dionisi le opere minori sono secondarie o addirittura inferiori rispetto alla Commedia, ragion per cui vale la pena pubblicarle in un’edizione finalmente sorvegliata e affidabile solo affinché possano «servire d’introduzione preparatoria allo studio» e al commento del poema: all’inizio del Piano per una nuova edizione di Dante, finalizzato all’edizione commentata della Commedia, Dionisi spiega infatti che

 

"’l comento, che per la vera lezione, e la buona intelligenza del Poema illustrato non sia dalle altre opere dell’autore, egli è come luce «Di dubbia luna sotto pover cielo»." ( Aneddoto II, p. 96)

 

È significativo che nel manifesto del 1833 Torri affermi di aver pensato per la prima volta di pubblicare le opere minori quando, leggendo la Commedia, si era trovato a dover consultare il Convivio: il principio-base del suo lavoro, desunto dall’ Aneddoto dionisiano, è infatti quello di “spiegare Dante con Dante”, principio che «richiede lettura e pratica di tutte l’opere dell’autore» perché si fonda sull’idea di una fitta intertestualità che culmina nella Commedia e ne illumina il senso letterale e allegorico (ragion per cui Torri aveva previsto di pubblicare le opere minori secondo l’ordine cronologico della loro composizione):

 

"nelle minori opere di Dante si trovano sparsamente accennate o in modo allegorico o senza velo le massime e gl’intendimenti suoi, riuniti poscia nel suo grande Poema; dimodoché una serve all’altra di spiegazione e riscontro, correndo tutte insieme ad agevolare la retta intelligenza di quello." (Mon, p. VIII)

"fummo sempre nello intendimento, che le nostre lucubrazioni giovassero all’oggetto di mettere in evidenza la conformità dei principii costantemente professati e seguiti dall’Allighieri in tutte le citate sue Opere, e come ciascheduna di esse servisse a dichiararsi e spiegarsi reciprocamente coi non pochi passi paralleli che presentano." (Dve, pp. V-VI)

 

Per entrambi i veronesi lo scopo dell’edizione è quello di assicurare la «retta e facile intelligenza» di ciascun testo, ovvero di «chiarire, anzi che altro, il senso della lettera», lasciando da parte l’interpretazione allegorica. L’atteggiamento di Torri in qualità di editore è decisamente orientato ai lettori. Poiché l’editore «coscienzioso» è quello che si mette al servizio del pubblico per soddisfarne le aspettative e i bisogni, fin dal 1833 Torri concepisce la propria collezione di Prose e poesie lirichenella forma di un’edizione cum notis variorum, tale da risparmiare a studiosi e lettori comuni la fatica di «procurarsi una molteplicità di volumi, alcuni de’ quali assai rari e difficili a rinvernirsi», ogni volta che abbiano bisogno di consultarli

 

"per notizie o riscontri, o per conoscere ciò che da altri si fosse pensato e scritto intorno alle Prose e alle Rime del nostro Autore, e ad illustrazione di questo o quel luogo di dubbio o controverso significato." (Ep, p. XV n. 14)

 

In ciascun volume della collezione, dunque, Torri non solo raccoglie tutto il «meglio» delle precedenti edizioni delle opere minori e della letteratura critica su di esse – quello che chiama i «letterarii sussidii» –, ma, allargando l’invito di Dionisi ai letterati a «metter in comune le loro scoperte di correzioni e spiegazioni su la divina Commedia», fa appello ai «dotti filologi italiani» affinché, in nome del

 

"comune amore al divino Allighieri, concorrer vogliano co’ savii loro suggerimenti e consigli, che accetterò con riconoscenza, a render nazionale e possibilmente perfetto il monumento che tuttora rimane[va] da erigersi a quel Genio sovrumano[.]" (Vn, p. VII n. 1)

 

– in effetti Giovanni Carmignani, professore di diritto penale nell’ateneo pisano, scrive il suo saggio Su la Monarchia di Dante Allighieri. Considerazioni filosofico-critiche espressamente su richiesta di Torri. Inoltre, dalla corrispondenza si evince che egli chiedeva spesso a colleghi e amici di comunicargli notizie inedite o poco note sulla vita e sull’opera di Dante: in una lettera da Parigi del 12 gennaio 1847, ad esempio, Terenzio Mamiani si scusa di non averne, e l’11 gennaio 1850 da Ginevra Francesco Longhena gli conferma di fare continue ricerche per conto non solo suo ma anche del marchese Trivulzio. [3]

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La forma dell’edizione Torri mira a mettere il lettore in grado di orientarsi tanto nel testo dantesco quanto nella bibliografia che lo riguarda. Da un lato quindi, in linea con i proponimenti di Dionisi, il testo viene presentato con una punteggiatura ammodernata e una nuova divisione in paragrafi – ad esempio nel caso della Vita nuova. Dall’altro, il corredo dei «letterarii sussidii» viene disposto ordinatamente come segue: ciascun volume si apre con la sezione dei preliminari, che raccoglie le prefazioni delle precedenti edizioni del testo, saggi o estratti che lo riguardano, notizie sui testimoni manoscritti e a stampa – insomma tutti i «documenti del processo, che servono alla storia bibliografica» dell’opera;

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il commento è una scelta di note dei precedenti commentatori (ciascuno identificato dalle proprie iniziali), mentre quelle più corpose vanno nell’appendice insieme ad altri materiali – come suggerito da Filippo Scolari già in una lettera del luglio 1832. I volumi si chiudono infine con gli indici e vari tipi di tavole ‒ ad esempio, nella Monarchia, la sinossi dei loci paralleli con la Commedia e le altre opere minori, in linea col principio generale dello “spiegare Dante con Dante”: è significativo che, scrivendo a Giambattista Giuliani il 15 dicembre 1852, Torri si complimenti con lui per la sua padronanza dei luoghi paralleli tra Convivio e Commedia, padronanza che dimostra che «una gran parte dell’anima di Dante è trasfusa in [lui]». [4]

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Coerente con l’orientamento al lettore della collezione torriana è anche il fatto che le Epistole, la Monarchia e il De vulgari eloquentia siano accompagnati dai rispettivi volgarizzamenti (in particolare quello di Ficino la Monarchia, quello del Trissino il De vulgari), a utilità tanto dei lettori ancora inesperti di latino quanto dei dotti che siano fuori esercizio.
Un po’ come Dionisi si pone come coordinatore, dando ai letterati che chiama a collaborare «alcuna regola ovvero avvertenza» per commentare correttamente Dante, così Torri, in qualità di editore, si chiama fuori dalle dispute su questioni di interpretazione o di attribuzione, presentandosi come arbitro giusto e imparziale che sottopone le argomentazioni in lizza ai lettori e rimette a loro il giudizio su di esse. Nei preliminari della Vita nuova, che ripercorrono la controversia sulla vera natura, umana o allegorica, del personaggio di Beatrice, Torri include quindi estratti de Il mistero dell’amor platonico di Gabriele Rossetti, sebbene non ne condivida la concezione di una Beatrice puramente allegorica (abbracciando piuttosto l’opinione di Pierre-Louis Ginguené, Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi e altri, secondo cui Beatrice sarebbe una donna reale che a volte Dante ha rappresentato in forma allegorica); e riguardo alla lettera a Cangrande, che ritiene autentica, afferma di voler pubblicare un saggio di Scolari che invece ne contesta la paternità dantesca, ribadendo che sta «al pubblico il darne giudizio».
A sé stesso Torri riserva quella che chiama la «parte meccanica dell’edizione», ovvero il lavoro prettamente filologico, assumendosi il compito di allestire il testo critico e corredarlo di note esegetiche e linguistiche:

 

"L’oggetto precipuo delle mie applicazioni si fu di sanare non pochi luoghi che difettavano di chiarezza o giusto senso, e di raggiungere la lezione possibilmente vera; non tralasciando di apporre qualche nota spiegativa d’altri o mia, dove parvemi richiesta dal bisogno di dilucidare alcune voci o fogge di dire, di render la ragione delle varianti adottate, e di soggiugere qualche opportuna osservazione[.]" ( Vn, p. XI)

 

La caratteristica saliente del metodo filologico di Torri – come di quello dionisiano – è lo scrutinio di un gran numero di varianti, raccolte dalla «vulgata» delle edizioni a stampa e dai manoscritti che riesce a collazionare (o a far collazionare), allo scopo di rintracciare la lezione «migliore e da preferirsi» e quindi di stabilire l’esatto significato del testo dantesco. Anche in questo caso Torri dimostra un approccio orientato al lettore: l’allestimento di un apparato delle varianti rifiutate – operazione che per il moderno filologo deriva automaticamente dal metodo – è per lui una scelta volta non solo a preservare l’«identità» delle precedenti edizioni, ma soprattutto a garantire ai lettori la possibilità di «ammettere o rigettare a proprio talento» le lezioni da lui (erroneamente) promosse a testo – cioè, in buona sostanza, di allestire il proprio testo critico. Molto interessante è la difesa del proprio metodo contenuta nella prefazione al De vulgari, in cui Torri si richiama all’autorità di Ludovico Antonio Muratori editore del Petrarca [>>]:

 

"Nè però temiamo d’essere accusati d’intemperanza [ scil. esagerazione] per la moltiplicità delle radunate varianti, risovvenendoci di ciò che scriveva il Muratori nella sua Prefazione alle Rime del Petrarca: “So anch’io che ad altri sembra una seccaggine, e una tediosa e inutile fatica quel raccogliere tante varie lezioni; anzi io stesso qualche volta non saprei dare loro il torto, veggendosi accumulate per alcuni e pubblicate delle cose che a nulla possono servire. Ma chi con riguardo e con fare scelta s’applica ad un tale studio, fa restare talvolta in dubbio se egli più giovi agli autori, o a chi vuol valersi degli autori medesimi [...]”." (Dve, p. XI)

 

Lo scrutinio delle varianti serve a Torri e correggere e migliorare il testo offerto dalle precedenti edizioni: anzi, il testo da lui pubblicato è talmente ricco di varianti e correzioni rispetto ad esse che può a tutti gli effetti essere considerato nuovo e inedito – come Torri sostiene fin dal 1833, in una lettera a Scolari del 9 ottobre a proposito del De vulgari eloquentia all’epoca ancora in progess, [5] e ribadisce poi nella prefazione alle Epistole –, addirittura come «un cadavere risorto a nuova vita» nel caso della Quaestio – ma può darsi che l’espressione gli venga da una lettera di Giuseppe Manuzzi del 25 giugno 1834, secondo cui Torri avrebbe dato «nuova vita» al testo della Vita nuova (cfr. p. 148 n.).
La collezione delle Prose e poesie liriche, forse ancor più dell’Ottimo commento, procura a Torri una certa fama di dantista e in particolare di filologo tra i contemporanei, come attesta da un lato una lettera non datata (ma dei primi anni Trenta) di Luigi Muzzi, che si chiede chi possa «uguagliarvi non che superarvi in queste filologiche vostre fatiche», [6] dall’altro il Giornale del centenario di Dante Allighieri pubblicato in vista delle celebrazioni fiorentine del 1865, in cui Torri viene ricordato come «rinomato dantofilo» e «benemerito degli studiosi del massimo poeta». In realtà, però, nelle Prose come nell’Ottimo il metodo filologico torriano è ancora fondamentalmente arretrato e impreciso: innanzitutto, nella scelta delle lezioni Torri segue il criterio quantitativo di promuovere quelle «confortate da maggior numero di stampe e dall’autorità dei codici», prendendosi una certa libertà nel «suppli[re] con un po’ di critica» e affidandosi al proprio gusto personale nei casi irrisolti. Inoltre, trascura del tutto le varianti formali e morfologiche, etichettandole come «qualche divario di ortografia o desinenza di voci» da uniformare tacitamente all’uso moderno, e fa così un passo indietro rispetto a Dionisi, che nell’Aneddoto II sottolinea invece l’importanza di rispettare gli usi (orto)grafici antichi, ad esempio nella rima siciliana.
Tuttavia, bisogna tenere presente che almeno fino alle soglie dell’unità d’Italia i tempi sono più inclini alle «romanticherie» che non all’erudizione e al rigore filologico, tant’è che bisognerà aspettare la fine del secolo per assistere alla nascita della moderna filologia, anche dantesca: prima di quel momento il recupero e lo studio di Dante sono animati in tutta Europa da ragioni ideologico-politiche, e specialmente nell’Italia del Risorgimento Dante assurge a pater patriae e icona della coscienza e dell’identità nazionali. Il dato interessante è che Torri, di ideali risorgimentali lui stesso, non sacrifica il prevalente aspetto patriottico della critica dantesca del suo tempo all’innovativo recupero della lezione filologica di Dionisi, ma al contrario integra i due approcci, facendoli interagire sul terreno linguistico.
Per Torri Dante è infatti il principale «luminare» e «regolatore» della lingua italiana, cioè colui che fornisce ai suoi compatrioti un modello di lingua nazionale unitaria che è strumento di «nazionale civiltà», gettando così le basi per l’unificazione politica dell’Italia. Questa concezione ‘ideologica’ della lingua deriva dalla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di Vincenzo Monti, che propugnava una lingua nazionale fondata sulla tradizione letteraria (ma insieme aperta alla modernizzazione) come vincolo unitario della nazione, preparatorio a quello politico: nel manifesto veronese del 1818, infatti, Torri annuncia l’edizione delle prose di Dante come integrazione alla Proposta sotto forma di appendice dei testi danteschi in essa citati, che dunque contribuisce a «stabilire sopra basi certe ed inconcusse la ragione della nazionale favella». In realtà, in origine l’idea di legare – ideologicamente e nei tempi di pubblicazione – la nuova edizione delle prose di Dante all’opera montiana non è di Torri ma del veneziano Vittore Benzone (o Benzoni), che gliela propone in una lettera del 15 settembre 1817 e in una successiva non datata, lettere che Torri cita a man bassa nel manifesto del 1818 senza però rendere merito al Benzoni del suggerimento: basti citare il passo in cui quest’ultimo si raccomanda che, se l’amico non avrà voglia di scrivere la prefazione, non la commissioni a «scrittori longobardi [scil.tedeschi] o franciosi. Ché sarebbe cosa assai sconcia trattandosi d’un ajuto porto alla riforma ed instituzione del vero linguaggio italico». [7]
Di conseguenza, come editore Torri insiste molto sull’aspetto linguistico delle opere minori, mettendosi al servizio degli storici della lingua incaricati di redigere il Vocabolario della Crusca – anche in questo caso in linea con Dionisi, che con la sua edizione mirava a correggere gli «errori» presenti nel Vocabolario e ad aggiungervi «parecchie cinquine di voci nuove [...] colla critica [...] novellamente scoperte». Il criterio linguistico orienta ad esempio la scelta dei volgarizzamenti di alcune prose latine, ossia quello di Marsilio Ficino per la Monarchia e due volgarizzamenti antichi per le lettere ai principi e signori d’Italia e ad Arrigo VII, selezionati in quanto «monumenti di buona lingua» da cui i compilatori del vocabolario possano trarre lemmi e significati nuovi. Notevole è anche la presenza, nel volume della Vita nuova, di una tavola di Voci e maniere di dire cavate dalla Vita nuova, non registrate nella quarta impressione del Vocabolario della Crusca, o mancanti dei dovuti esempii – tavola basata sulla collazione del codice Martelli che nel 1834 Torri aveva affidato all’amico Giuseppe Manuzzi, responsabile della ristampa del vocabolario a partire dal 1833 –, posta come «convenevol corredo del libro, ed a vantaggio degli studiosi della italiana favella».
Particolarmente significativo è poi il fatto che, fin dal manifesto del 1818, Torri insista sulla funzione didattica delle opere minori per quanto riguarda l’uso della lingua, attraverso cui passa la consapevolezza dell’identità nazionale: le prose di Dante eccellono

 

"sì per la proprietà del linguaggio, come per una rara evidenza e semplicità di locuzioni e di costrutti, [...] onde con sobrietà ed efficacia di parole questo divino ingegno, secondo il costume suo, ogni maniera di concetti insegna colorare[;]"

 

e sotto la «corteccia» della lingua scorre in esse

 

"un succo interno di pensieri, che produce bellissimi frutti di sapienza, e talvolta nelle stesse parole trafondendosi le riempie di tal maestà e grandezza, che vince le ruggini del secolo, e cangia in oro il ferro." (Ep, p. XI)

 

Vale la pena notare che la metafora del succo/sugo – già presente nel manifesto del 1818, in cui la poesia di Dante è definita «sugosa ed alta» – deriva a Torri dal suo illustre concittadino Giuseppe Torelli, di cui Torri cura l’edizione delle opere nel 1833-1834, che nella Lettera sopra Dante Aligeri contro il Sig. di Voltaire (Verona, 1781) scrive: «Il Petrarca studiava in Dante; il Tasso studiava in Dante [...]. Dobbiamo studiarvi ancor tutti: che il sugo, e ’l nervo del dire, la maestà, e la varietà del numero, l’evidenza, la forza, e in ispezie la proprietà indarno altrove s’apprende».
In particolare il De vulgari eloquentia, definito come «intera trattazione didattica» sulla lingua, additando nella lingua «stabilita ed usata dagli scrittori di tutta quanta la Penisola» il modello dell’italiano unitario, deve insegnare a porre fine alle dispute municipali sulla lingua e alla “tirannia” linguistica dei fiorentini, fattori che, nell’Otto come nel Trecento, mettono a rischio l’autonomia e l’unità della nazione:

 

"le condizioni infelici dell’Italia non [erano] nel secolo decimoquarto punto diverse da quelle che dolorosamente sperimentiamo a’ giorni nostri, e che ci conducono a riflettere, quanto pel bene della nostra comune patria sia necessaria nei Governi e nei Popoli la concordia degli animi e delle azioni, senza la quale sarà sempre dagli stranieri oppressa e avvilita, né potrà mai risorgere all’onore di nazione[.]" (Dve, p. VI n. 5)

 

È un segno dei tempi che l’aspetto delle Prose e poesie liriche che più velocemente è stato recepito e valorizzato tra i contemporanei sia proprio quello (didattico-)ideologico, come emerge ad esempio dal manifesto livornese del 1842, in cui Silvio Giannini descrive l’annunciata collezione torriana come una pubblicazione che «piace di chiamare italiana», deputata a «alimentare il fuoco sacro e l’amore delle italiche glorie nel cuore dei giovani».
Ancora all’indomani dell’unità, in occasione del VI centenario della nascita di Dante celebrato in grande a Firenze nel marzo 1865, la prefazione alla Guida officiale per le feste del centenario sarà improntata a un forte spirito patriottico, «nel nome santissimo del precursore della unità e libertà d’Italia Dante Alighieri»: e non a caso, a chiudere la lista dei «commentatori, traduttori e biografi» di Dante i cui ritratti adorneranno la città sarà proprio il nome di Alessandro Torri, e la sua collezione delle Prose e poesie liriche figurerà nei cataloghi dei maggiori librai fiorentini tra i titoli danteschi esposti e venduti per l’occasione.

La collezione di Prose e poesie liriche di Dante Allighieri 15 La collezione di Prose e poesie liriche di Dante Allighieri 16

 

[1] Come si evince dalla risposta di Witte del 26 dicembre (cfr. Abd-El-Kader Salza, Dal carteggio di Alessandro Torri. Lettere scelte e postillate, Pisa, Nistri, 1897, p. 122).

[2] Cfr. Averardo Pippi, Otto lettere di Alessandro Torri a Filippo Scolari, Firenze, Landi, 1889.

[3] Cfr. Salza, Dal carteggio di Alessandro Torri, cit., rispettivamente pp. 94 e 107.

[4] Cfr. Salza, Dal carteggio di Alessandro Torri, cit., p. 118.

[5] Cfr. Pippi, Otto lettere di Alessandro Torri, cit., p. 18.

[6] Cfr. Salza, Dal carteggio di Alessandro Torri, cit., p. 61.

[7] Cfr. Salza, Dal carteggio di Alessandro Torri, cit., p. 9.