Biblioteca A. Torri - Tra gli Opuscoli sopra Dante: la miscellanea sul conte Ugolino (Misc. 12)

Scheda a cura di Selene Maria Vatteroni

Opuscoli sopra Dante 1

"NB. Questa collezione di tutti gli scritti pubblicati nella occasione della celebre controversia fra i due Professori di Pisa, Carmignani e Rosini, è forse unica. Un inglese, Tornton Exq., volea pagarla due lire sterline; ma pensai alla difficoltà di rifarla; oltrechè dovevo aver riguardo alla copia autografa gentilmente favoritami del proprio scritto dal march. Gargallo. A. Torri. (Misc. 12, no 26)"

Come avverte questa nota manoscritta di Alessandro Torri, la Miscellanea 12 raccoglie tutti gli opuscoli pubblicati tra 1826 e 1844 in relazione alla celebre disputa sul vero significato del verso che conclude il racconto del conte Ugolino nell’Inferno dantesco: «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno» (If XXXIII 75). La discussione comincia durante un ricevimento a casa della signora Teresa Scotto, a Pisa, la sera del 4 gennaio 1826: Giovanni Carmignani, professore di diritto criminale nell’ateneo pisano, sostiene l’interpretazione già avanzata da Giovan Battista Niccolini in un discorso del 1825, secondo cui Dante lascerebbe intendere che Ugolino mangiasse i figli; mentre Giovanni Rosini, professore di eloquenza italiana nello stesso ateneo, difende l’interpretazione tradizionale, in base alla quale Ugolino morirebbe di fame senza aver commesso la colpa dell’antropofagia. Nei giorni seguenti a Pisa non si parla d’altro, e intorno ai due professori vengono formandosi due schieramenti che porteranno avanti la discussione fino al 1844: da un lato il «gagliardo partito dell’antropofagia» di Carmignani, spalleggiato da Filippo Scolari, Luigi Muzzi, Tommaso Gargallo (chiamato a fare da arbitro), Giuseppe Bozzo, Raimondo Meconi (autore di una rassegna sulla disputa) e Melchiorre Missirini; dall’altro i sostenitori dell’interpretazione vulgata e rosiniana, Luigi Maria Rezzi, Giacomo Barzellotti, Gabriele Pepe, Giuseppe Gazzeri, Clemente Micara e Cesare Lucchesini. Allo schieramento rosiniano si possono aggiungere anche Giuseppe Fardella e Lorenzo Martini, al cui «comento filosofico» Torri rimanda nella nota no 27 (cfr. Misc. 8bis, no 13).
Nella Miscellanea 12 gli opuscoli sono ordinati cronologicamente, preceduti da un indice di mano di Torri – sempre presente nei volumi degli Opuscoli sopra Dante [>>] – e seguiti da una raccolta eterogenea di documenti e appunti, pure manoscritti.

 

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Opuscoli sopra Dante Opuscoli sopra Dante

 

Torri, che arriva a Pisa proprio nel fatidico 1826, comincia a mettere insieme la miscellanea almeno due anni dopo, come suggerisce una lettera a Filippo Scolari del 10 settembre 1828 in cui chiede all’amico di mandargli una copia del suo opuscolo ugoliniano, per poterlo unire «agli altri che trattano dello stesso argomento». [1]
Nel 1837 la raccolta è molto probabilmente già completa: il 12 aprile Torri riceve dal marchese Gargallo la copia autografa della Lezione accademica che gli aveva chiesto (quella menzionata nella nota manoscritta), come si ricava da una sua nota e dal biglietto del mittente, trascritto di seguito a essa;

 

Opuscoli sopra Dante Opuscoli sopra Dante

 

e pochi mesi dopo presta il volume a Carmignani, che glielo rimanda con un biglietto datato 15 settembre, in cui per altro, ripromettendosi di tornare sull’argomento, si augura di ricevere consiglio dallo stesso Torri:

 

"Melius sevò, quàm numquam. Eccole di ritorno, e con titolo di restituzione, e con corteggio di distinte grazie e sincere la raccolta di Chiacchiere sul verso di Dante. Se avvenga che gl’impicci miei mi permettano di tornare su quell’argomento, nel quale chi ne discorse non ha a parer mio, distinto l’estetico, il filologico, e lo storico, spero chiarire anco più diffusamente le cose; nel che i lumi suoi mi potrebbero essere di gran soccorso. (Misc. 12, no 20)"

 

Opuscoli sopra Dante

 

Il tardo opuscolo di Missirini, datato 1844, deve essere stato aggiunto solo in un secondo momento, non a caso in ultima posizione (ma anche nel rispetto dell’ordinamento cronologico). Sempre intorno all’anno 1837 ruota infatti anche l’identificazione del Tornton (sic) che, stando alla nota di Torri, avrebbe voluto comprare questo volume: un’ipotesi quantomeno plausibile è che si tratti del figlio del medico londinese Robert John Thornton (1768-1837), che nel suo The Philosophy of Medicine (London, 18004) citava l’episodio dantesco di Ugolino a sostegno della tesi secondo cui il digiuno consumerebbe più rapidamente i più giovani: «Dante is said [...] to have framed the incidents in the affecting story of Count Ugolino, a nobleman of Pisa, who was confined, with his four sons, in the dungeon of a tower; [...] they were in this horrible situation starved to death. And they are represented by the poet, as dying at different periods, according to their respective ages» (pp. 172-173).
A dispetto della speranza in lui riposta da Carmignani, Torri non interviene nella discussione. Anche in qualità di editore delle opere minori di Dante [>>], infatti, il suo ruolo è sempre piuttosto quello di spettatore che di disputante, ovvero di accurato compilatore degli interventi altrui al servizio della comunità degli studiosi: nel 1833, ad esempio, fa avere a Meconi una copia dell’opuscolo di Scolari, che mancava alla sua Rivista dantesca; e nel 1852, pubblicando il piano di edizione della Nuova serie di aneddoti danteschi, annuncerà al sesto posto un’Appendice alla Rivista dantesca del Giornale Pisano de’ Letterati, anno 1833, numeri 66, 67, concernente ai comentatori del v. 75, canto XXXIII dell’Inferno, sulla morte del Conte Ugolino. Tuttavia, in una nota appuntata quasi a mo’ di promemoria su una delle carte finali della Miscellanea 12, Torri abbozza una nuova interpretazione della parola digiuno in If xxxiii 75, che costituisce uno dei punti caldi della disputa:

"N.B. Nessuno, parmi, disputando il senso della parola digiuno nel verso dantesco, abbia posto mente, che tal voce ha pure il significato di desiderio, come lo usò Dante stesso in due luoghi del Paradiso, C. XV, v. 49: “E seguitò: grato e lontan digiuno„ – e c. XIX, v. 25: “Solvetemi, spirando, il gran digiuno„. A. Torri. "

Opuscoli sopra Dante

Interpretazione in cui si riconosce l’editore dell’Ottimo commento alla Divina Commedia (Pisa, Capurro, 1827-29) [>>]: l’anonimo trecentista – che a If XXXIII 75 reca la spiegazione tradizionale – parafrasa infatti entrambi i passi citati ricorrendo proprio alla famiglia lessicale di desiderare (a Pd XV 49: «E questa è più vera sposizione; quasi dica: tu desideravi di sapere se l’anime de’ beati hanno cura de’ loro parenti che sono in prima vita»; a Pd XIX 25: «O voi molti fiori, [...] assolvetemi quello dubbio che lungamente m’ha tenuto desideroso della sua esposizione», cioè se la salvezza sia possibile solo per fede – qui però desideroso glossa «[m’ha tenuto] in fame» del v. 26). In effetti la spiegazione di Torri inclina più a quella di Carmignani che non a quella di Rosini: il primo ricorre infatti ai principi della logica per spiegare digiuno come ‘desiderio di cibo’, cioè ‘fame’; mentre il secondo si appella all’evidenza della lettera del testo: «Il Poeta scrisse digiuno, e non fame: il digiuno è la mancanza; la fame è il desiderio del cibo» – e poiché questa, al contrario di quello, può spingere all’antropofagia, non si può in alcun modo attribuire a Ugolino.
Le due diverse interpretazioni risultano da due approcci ideologicamente opposti. La lettura di Rosini obbedisce a quelli che sono i «canoni» della «Critica», dunque in primo luogo al principio della verosimiglianza storica e morale:

 

"Cadono i figli l’uno dopo l’altro! E quel miserissimo padre pensa egli alla propria conservazione, dopo aver veduto cadersi dinanzi agli occhi un dopo l’altro i figliuoli? No! – Estenuato dalla fame per cinque interi giorni sofferta; con gli occhi velati, non vedendo più i figli, va tentone per terra, per ricercarli, e abbracciarli. Alitar non udendoli, per tre interi giorni (sic) li chiama: e cieco, lasso, spossato, il letargo foriero della morte lo sopraggiunge colle mani tremolanti sui cadaveri, e col nome de’ figliuoli alla bocca; poichè questo sì, e non altro, è il sublime concetto del divino Poeta. Il dolore ancor mi spingeva ad abbracciarli, e chiamarli; ma ebbe il digiuno maggior possanza, e m’estinse. La storia qui viene in soccorso della poesia, narrando che, apertasi dopo otto giorni la torre, furono trovati tutti morti. (Misc. 12 no 3, pp. 17-18)"

 

Rosini si fa un vanto del fatto che la sua esposizione del verso dantesco coincida con quella data dalla maggioranza degli interpreti antichi e moderni, da Buti e Landino fino a Monti e Pindemonte, in una «piena continuità di consenso, che [...] forma alla lunga uno dei prototipi del gusto»; e in un biglietto a Torri del 15 settembre 1828 si lascia francamente andare all’autocelebrazione:

 

"Ho fatto trascrivere nell’annessa cartolina un paragrafo di lettera del Cav. Pindemonte, che potrete leggere a quei seri che fan tanto chiasso. Se non si arrendono alla sentenza di quest’oracolo, peggio per loro che si mostran ciechi in tanta luce: il mio trionfo non è più dubbio."

 

tanto da suscitare l’ironica annotazione del destinatario: «Si noti la modesta espressione del Professore pisano!!» (Misc. 12, no 19).
Carmignani, che invece non bada alle opinioni dei commentatori, imposta la sua lettura secondo i principi di una «scienza nuova», l’estetica: per lui quello che conta sono i «dati sentimentali» ovvero i «sentimenti morali», alla luce dei quali anche la spiegazione antropofagica si rivela conforme alla morale:

 

"Certamente s’io avessi seccamente detto, come qualche antico comentatore di Dante lo disse, che Ugolino, veduti morti i quattro suoi figli, e veduto, che al caso della lor morte non ci era rimedio, dette di mano al coltello, si messe a tavola, e a sangue freddo divorò le lor carni, voi avreste potuto dirmi, che questo quadro era orribile, ributtante, più nefando d’un desinar di cannibali. Ma io non dico, e non ho mai detto così: [...] io ho detto, non che un padre si cibò della carne de’ proprj figli, ma che un’infelice non più padre, perchè altrimenti non sapeva più di esser tale, ridotto all’istinto di mera animalità è trascinato da questo istinto contro sua volontà, poichè più libertà non aveva, alla dura estremità di cibarsi inconsapevole delle carni de’ proprj figli.
[...] come mi si può far rimprovero, che la mia spiegazione sia offensiva della morale, e della voce santa della natura, e del sangue?" (Misc. 12 no 2, pp. 82-83, 81)

 

L’antico commentatore chiamato in causa è il trecentista bolognese Jacopo della Lana: il testo del Lana viene usato dagli editori milanesi della Commedia del 1477-78, Guido da Terzago e Martino Paolo Nidobeato. Carmignani, sbagliando, pensa che i tre siano reciprocamente indipendenti, cosa che Rosini non manca di rettificare. Il Lana in effetti chiosa «seccamente» così: «Qui mostra po’ che fono morti, el dezuno vinse ’l dolore, che ’l manzò d’alcuni de quilli, infin morrì de fame». Giuseppe Bozzo, sostenitore di Carmignani, ha quindi buon gioco nell’affermare che l’interpretazione del professore “purga” quella del Lana: anche perché, sul presupposto che poesia e storia stanno per lui su due piani incommensurabili – non serve che ciò che è verosimile in poesia sia anche vero storicamente –, essa

 

"non ha bisogno d’immaginare, che Ugolino divorasse realmente la carne de’ proprj figli: perocché le basterebbe per rendere commovente, e agitatore il concetto, che Ugolino avesse sentito il bisogno di farlo, avesse preso il movimento per farlo, [...] perché egli sarebbe morto colla coscienza o colla credulità d’essersi abbandonato a quel terribile cibo." (Misc. 12 no 2, p. 23)

 

Prova ne sia che Dante non raffigura il pasto di Ugolino, ma, con «reticenza [...] sublime» (espressione presa in prestito da Niccolini), lascia al lettore la possibilità di immaginarlo.
Nello schieramento avversario, però, l’interpretazione di Carmignani non viene capita. Innanzitutto viene considerata, da Gabriele Pepe e Giuseppe Gazzeri, troppo ingegnosa, addirittura «sofisticante», e perciò lontana dal vero: l’interpretazione giusta è infatti quella che, come la rosiniana, viene più spontanea e naturale, quella che darebbe non solo un giovane «già erudito a leggere con intendimento la Divina Commedia» (Misc. 12 no 6, p. 8), ma un qualunque lettore:

 

"noi non cerchiamo quanti e quali fra i lettori di Dante vedranno nel verso combattuto o il nostro o il comune concetto, ma cerchiamo qual fosse, scrivendolo, il vero concetto di Dante. Ed io rispondo che il concetto di Dante, ovunque egli ha voluto destare forti emozioni, è conforme a quelle che egli ha destato e desta di fatto nell’universalità o nel maggior numero dei suoi leggitori." (Misc. 12 no 7, p. 13)

 

In secondo luogo, essa viene fraintesa in pieno: sebbene Carmignani «non abbia mai detto» che Ugolino si mise «a tavola» sui corpi dei figli, Rosini e Monti gli rimproverano di ridurre l’episodio dantesco per l’appunto a un «orribil banchetto», mentre Pepe e Micara arrivano ad accusarlo di essere senza cuore. I sostenitori di Carmignani lo difendono a spada tratta, mostrando di aver afferrato i punti cruciali della sua argomentazione: Filippo Scolari riprende il concetto di «reticenza» e redarguisce Rosini:

 

"Piano di grazia. Qui non si tratta di banchettare. All’atto che deve compiere la visione terribile basta un principio." (Misc. 12 no 8, p. 14)

 

Il marchese Gargallo sottolinea la separazione di storia e poesia:

 

"Sia pur falso, dicono eglino [sc. Carmignani e Niccolini], che il conte abbia con effetto ne’ figli maculato la bocca, purché resti fermo che Dante o credette, o volle far credere, che di loro carni si fosse pasciuto." (Misc. 12 no 14, p. [6])

 

E lo stesso fa Luigi Muzzi, senza però citare mai Carmignani:

 

"Questo [sc. il mio parere] si è non che Ugolino manicasse de’ figli; il che se si può diffinire, pertiene alla storia, ma che Dante ciò intese e mirò a farne intendere; lo che spetta di privilegio alla poesia." (Misc. 12 no 10, p. 6)

 

Questi ultimi tuttavia “aggiustano” la lettura del professore – verosimilmente nel tentativo di renderla più facile da accettare sul piano morale – e così facendo finiscono per snaturarla: non solo Gargallo, che giustifica l’antropofagia di Ugolino col proposito da lui maturato di salvarsi per poi vendicare i figli; ma soprattutto Muzzi, secondo cui il conte avrebbe toccato e chiamato i figli per tre giorni (sic), prima di mangiarli, per la premura

 

"di certificarsi non solamente esser morto uno ma tutti[,] per mostrare finita affatto la lotta tra la ripugnante natura e la fame e affinché traccia minima di orrore in chi ascolta la pietosa narrativa. E, siccome ripugnanza della natura nascerebbe tanto dal non essere certissimamente morto quell’uno, che doveva il primo servire di pascolo disperato, quanto dal non essere certissimamente morti gli altri tutti, il cui fiato di vita saria stato al padre un doloroso testimonio e quindi un ritegno, perciò Ugolino spiegossi sovra ciascuno. [...] Per che motivo mai, se questo non era, ha da dir Ugolino che si diede a brancolar sovra ciascuno? e a chiamargli poi per tre giorni?" (Misc. 12 no 10, pp. 11-12)

 

Muzzi arriva addirittura a presentare la sua spiegazione come la via d’accesso al sublime del verso dantesco, seguito a ruota da Melchiorre Missirini: «Vedi il mirabile ingegno del Poeta! Quanti sforzi fa fare al misero Conte: quanta riservatezza anche in quel suo furore, prima di farlo determinare al pasto nefando!» (p. 13): ma in effetti non si può fare a meno di considerare una simile interpretazione, d’accordo con il rosiniano Cesare Lucchesini, «contro natura».
Del resto, anche l’interpretazione vulgata e rosiniana va soggetta ad “aggiustamenti” da parte dei suoi sostenitori, ad esempio dello stesso Lucchesini: secondo lui il digiuno avrebbe la meglio nel senso che aggiungerebbe alle miserie di Ugolino «quella grandissima di non poter nè pure sfogare l’immenso suo dolore» toccando e chiamando i figli:

 

"Finché le poche sue forze gli bastarono, sfogò il suo dolore colla voce, pronunziando quei cari nomi: E tre dì (sic) li chiamai. Lo sfogò coll’andar brancolando su’ loro cadaveri per abbracciarli. Ma poi la continuazione del digiuno scemandogli vie più le rimanenti forze, gli tolse ancora quella trista consolazione. Richiedeva il dolore che di nuovo li chiamasse a nome, e gli mancava la voce. Richiedeva il dolore che or l’uno or l’altro si stringesse al seno, ma non avea forza per farlo. In questo il digiuno potè più che il dolore." (Misc. 12 no 13, p. 78)

 

L’interpretazione di Lucchesini vuole rettificare quella di Vincenzo Monti. Per non dover ammettere che Ugolino muoia più di fame che di dolore – dal momento che «sarebbe stato più nobile e più pietoso sentimento il contrario» –, Monti attribuisce al dolore di Ugolino una nobilitante potenza vitale, alla quale contrasta il digiuno:

 

Poscia più che il dolor potè il digiuno: cioè dopo essere io sopravvissuto tre giorni (sic) a’ miei figli, dopo averli per tutto quello spazio di tempo pietosamente chiamati, barcollando già cieco sovra i loro cadaveri, finalmente più che la forza del dolore e del furore a tenermi vivo, potè la forza della fame a darmi la morte”. (Misc. 12 no 10, p. 28)

 

Concetto a suo dire rivoluzionario, ma in realtà, come debitamente rilevano dallo schieramento avversario Giuseppe Bozzo e Raimondo Meconi, già implicito in Rosini («il dolore ancor mi spingeva ad abbracciarli, e chiamarli; ma ebbe il digiuno maggior possanza, e m’estinse») e prima di lui nel trecentista Francesco da Buti («poscia il digiuno finì la vita mia, la quale conservava il dolore»): anzi, per Bozzo sarebbe stata l’interpretazione di Carmignani ad aprire gli occhi di Rosini e Monti, permettendo loro di attingere quel «senso bello elevato sublime, già tocco dal Buti» (Misc. 12 no 15, p. 38 n.).
Le parole di Bozzo vanno lette alla luce dell’augurio che Carmignani esprime fin dall’inizio della prefazione al suo opuscolo, l’augurio cioè che la sua spiegazione di If XXXIII 75 possa, se non primeggiare, almeno ottenere «l’onore del consolato» con la rosiniana, affermandosi presso gli studiosi come la spiegazione «più poetica» accanto a quella «più critica» di Rosini. Purtroppo però la cosa non è destinata a realizzarsi: nei commenti otto e novecenteschi l’interpretazione antropofagica di Carmignani verrà di norma brevemente rifiutata, quando non passata del tutto sotto silenzio, pur con le notevoli eccezioni di Croce, De Sanctis e Contini, che «non sono in grado di scartarla del tutto». Tanto più merita dunque di essere citata, a mo’ di conclusione, la chiosa di Anna Maria Chiavacci Leonardi, in cui a distanza di più di un secolo e mezzo rivive in pieno lo spirito della lettura del professore pisano:

 

"più che il dolore che mi spingeva a chiamarli e accarezzarli, poté la fame. Il tragico verso resta come Dante lo ha voluto, ambiguo e velato. Ma che l'ipotesi più terribile possa esser fatta (e tutti i più grandi critici non l'hanno esclusa) basta a convincere che Dante ha voluto che si facesse."


[1] Cfr. Averardo Pippi, Otto lettere di Alessandro Torri a Filippo Scolari, per le nozze Torrigiani-Tozzoni, Firenze, Landi, 1889, p. 14.