Biblioteca A. Torri - L’edizione dell’Ottimo commento della Divina Commedia

Scheda a cura di Selene Maria Vatteroni

 

L’edizione dell’Ottimo commento della Divina Commedia

 

Pubblicando «dopo quasi tre anni di continui studj e fatiche» l’edizione in tre volumi dell’Ottimo commento della Divina Commedia (Pisa, Capurro, 1827-1829), Alessandro Torri non ritiene che «necessario sia con pompose ed ornate parole di accrescerne l’importanza e vantarne l’utilità»: in effetti la sua è ancora oggi l’unica edizione integrale disponibile di quello che è il più antico commento all’intera Commedia prodotto a Firenze, opera di un contemporaneo di Dante e databile intorno al 1334; dell’edizione Torri è oggi disponibile la ristampa anastatica a cura di F. Mazzoni, Bologna, Forni, 1995.
Fin dalle prime indagini erudite, tra Sette e Ottocento, l’anonimo commentatore è considerato come il principale esegeta della Divina Commedia, soprattutto perché in due famose chiose (a If X 85 e XIII 144) afferma di essersi consultato direttamente con Dante. Nell’annuncio di stampa del 1826, rilegato nella Miscellanea 28 (no 1), Torri gli riconosce infatti «grandissimo peso rispetto ai fatti storici avvenuti verso quel tempo» e la massima autorità «per l’interpretazione di alcuni luoghi oscuri, che il Poeta medesimo avrà potuto dilucidare colle proprie labbra al suo Commentatore»: errori e inesattezze, quando occorrono, saranno quindi da imputare non direttamente all’anonimo ma alla «poca sicurezza delle nozioni storiche» che si aveva ai suoi tempi, ovvero alla «manifesta inesattezza del copista» del manoscritto su cui Torri fonda la propria edizione. Secondo Torri l’Ottimo ha invece minore autorevolezza in merito all’«interpretazione dei concetti eminentemente poetici» – ma solo perché essa «dipende dall’ingegno e dai lumi», appannaggio del poeta e non dell’esegeta; analogamente Filippo Scolari, nella sua entusiastica recensione al lavoro dell’amico (rilegata anch’essa nella Miscellanea 28, no 6), elogia l’antico commentatore per le «sicure parafrasi, e brevi commenti, che valgono non di rado a districare felicemente molti dei dubbj metafisici, e dottrinali, che gl’interpreti posteriori, non potendoli intendere ad un tratto, sono stati costretti a spianare con lungo discorso».
Il maggior pregio dell’Ottimo commento è però senza dubbio quello linguistico. Come Torri ricorda all’inizio della sua prefazione all’edizione, la stessa designazione di Ottimo si riferisce alla purezza ed eccellenza della lingua del commento e risale ai compilatori del primo Vocabolario della Crusca (1612), che ad esso fecero ampio ricorso. Non a caso, rivendicando, nel manifesto dell’ottobre 1829, il merito di aver finalmente reso disponibile ai dotti un testo così importante, Torri giustifica l’impresa dell’edizione non solo col «desiderio [...] di contribuire alla maggiore illustrazione della Divina Commedia», ma soprattutto con «l’amore della bellissima nazionale favella» e l’intenzione di «renderle [...] un segnalato servigio» riportando alla luce un «Classico Libro» – anzi, «in quanto alla lingua il più Classico» – qual è l’Ottimo commento. Per questo motivo Torri confida nella «riconoscenza di tutti gli studiosi della lingua» (ai quali per altro indirizza l’annuncio di stampa del 1826): riconoscenza che gli viene tributata, subito all’indomani della pubblicazione del terzo volume, nientemeno che dagli Accademici della Crusca, con un biglietto firmato dal segretario dell’Accademia Giovan Battista Zannoni, che a sua volta – e forse proprio sulla scorta del manifesto di ottobre – sottolinea il servigio reso dall’edizione dell’Ottimo insieme all’esegesi della Commedia e alla lingua italiana:

 

L’edizione dell’Ottimo commento della Divina Commedia

 

"Firenze 24 novembre 1829,
Il segretario dell’Accademia della Crusca al sig. Alessandro Torri a Pisa
Onorevolissimo signore,
Nell’adunanza di questa mattina, prima dopo le ferie autunnali, ho presentato all’Accademia l’esemplare dell’Ottimo Comento della Divina Commedia, ond’Ella ha voluto esserle cortese.
Se colla pubblicazione di quest’Opera, utile tanto alla retta interpretazione della Divina Commedia e alla lingua, ha Ella meritato la riconoscenza di tutti i letterati italiani, ha con più forte ragione diritto a quella dell’Accademia, la quale ardentemente desidera (e i suoi vi danno opera continua), che dei Testi già citati in manoscritto il più che possasi venga a stampa; riputando giusto e giovevole il dar modo ad ognuno di riscontrare gli esempj che allega il Vocabolario, su gli Scrittori cui essi appartengono.
L’Accademia pertanto le rende grazie del sì bel dono; ed io, cui si dà incarico di far Lei di ciò consapevole, sono lieto di potermi insieme dichiarare con molta stima e molto ossequio
di Lei, onorevolissimo signore,
Devotiss. Obbligatiss. Servidore
G. B. Zannoni" [1]

 

Anche le recensioni degli amici Luigi Muzzi e Filippo Scolari (entrambe rilegate nella Miscellanea 28, num.. 5 e 6) insistono sul pregio e sull’utilità dell’edizione dell’Ottimo commento in quanto «meritamente da annoverarsi tra i testi di nostra lingua», e celebrano Torri come «assai benemerito della italiana glossografia e del Poema sacro», colui

 

"il quale nell’amore e nella cultura della gloriosa lingua nostra si fa conoscere galante allievo della buona scuola ravvivata sulle rive dell’Adige dal celebre suo concittadino Antonio Cesari, dalla quale giova sperare verrà in qualche modo ristorata la perdita che in quell’illustre fecero testè le umane lettere[.]" (Misc. 28 no 5, pp. [1-2])

 

– ossia come l’erede di quell’illustre tradizione filologico-erudita veronese che fa capo a Giovanni Jacopo Dionisi (1724-1808), autore di alcune delle primissime indagini sugli antichi commenti alla Commedia, raccolte nel quinto dei suoi Aneddoti su Dante (1790) e in parte riproposte nella Preparazione istorica e critica alla nuova edizione di Dante Allighieri (1806). Nel manifesto dell’ottobre 1829 anche Torri ricorda le proprie origini, augurandosi che «l’Italia saprà buon grado a un Veronese di aver reso tale omaggio al sovrano Poeta; il quale onorevolmente accolto nel suo esilio dall’ospitalità generosa dei Signori della Scala, lasciar volle a Verona la propria discendenza e il nome illustre, che religiosamente venerato tuttora vi si conserva» (cfr. Misc. 28 no 3, p. [2]).
Nella sezione dell’Aneddoto V dedicata all’Ottimo, Dionisi non solo ricostruisce i tratti salienti della figura dell’anonimo commentatore – toscano ma a suo parere non fiorentino, di parte ghibellina, sicuramente persona diversa da Jacopo della Lana (col quale invece veniva confuso) – e illustra le caratteristiche stilistiche della sua opera, pubblicando a titolo di esempio le chiose a If I (pp. 128-136); ma fornisce anche l’elenco «d’alcune voci e maniere dell’anonimo non registrate nel Vocabolario degli Accademici della Crusca» (pp. 113-119), aprendo così la strada alla «grande impresa della correzione del vocabolario» e insieme dell’arricchimento del «tesoro della lingua». Su questa strada prosegue anche Torri, cominciando così a contrarre quel debito di metodo e impostazione con Dionisi che si rivelerà davvero ingente nell’edizione delle Prose e poesie liriche di Dante Allighieri [>>]. Ognuno dei tre volumi dell’Ottimo (uno per cantica) è corredato infatti da note a piè di pagina e da un’appendice in cui «sonosi rettificate più centinaja di abbagli, e notate non meno di 300 rimarchevoli differenze» nei passi citati nel Vocabolario (di cui Torri usa la 4a ed., Firenze, Manni, 1729-1738), «senza parlare di presso a egual numero di citazioni errate sia di Cantiche, sia di Capitoli, da noi raddrizzate ai luoghi respettivi». Ancora più importanti sono gli indici delle voci registrate nel Vocabolario, da Torri stesso «pazientemente riscontrate», completi anche «delle voci e maniere di dire, che si propongono da registrarsi» o perché mancanti del tutto al Vocabolario, o perché presenti solo con altri significati, lo spoglio delle quali Torri commissiona invece a Luigi Muzzi per l’Inferno, a Paolo Zanotti per Purgatorio e Paradiso.

 

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Tuttavia, stando almeno alla Bibliografia dantesca del visconte Colomb de Batines (Prato, 1845-1846, 2 voll.) questi indici vennero giudicati dalla critica come «molto imperfetti»; e già Karl Witte, nel suo Die beiden ältesten Commentatoren [sic] von Dante’s Göttlicher Komödie (I due più antichi commentatori della Divina Commedia di Dante) apparso sui «Wiener Jahrbücher der Literatur» del 1828 (e poi ripubblicato in Dante-Forschungen. Altes und Neues, Heilbronn, 1877-1879) li giudicava peggiori di quelli che gli aveva fatto avere il professore padovano Daniele Francesconi.
C’è da dire che i rapporti di Torri sia con de Batines sia con Witte non erano idilliaci. Alla metà degli anni Quaranta risale infatti un’accesa disputa tra Torri e il bibliografo francese sulla questione dell’antichità e dell’originalità dell’Ottimo commento. In una lettera del 4 febbraio 1848 indirizzata al giornale «La Patria» e inserita nella Miscellanea 28 (no 38), Torri lamenta i ripetuti tentativi del de Batines di trascinarlo suo malgrado «in una polemica [...] per cose letterarie», ad esempio con i due opuscoli che, come avverte un’annotazione manoscritta a penna, sono rilegati ai num. 45 e 46: rispettivamente il saggio Del comento su la Divina commedia appellato l’Ottimo e di quello attribuito a Iacopo della Lana. Fatti e congetture scritte al sig. Seymour Kirkup, estratto dal volume miscellaneo Studi inediti su Dante Alighieri (Firenze, presso l’Agenzia Libraria, 1846) al quale partecipa anche lo stesso Torri con due lettere (Su i comenti a due passi della Divina Commedia, l'uno astronomico, l'altro filologico a Prospero Frecavalli, e Su l'inedito comento di Francesco da Buti alla Divina Commedia [...] a Carlo Bernardoni), e la Lettera al sig. Prof. Enrico Bindi di Pistoja, sopra una critica erronea fatta al Compilatore della Bibliografia Dantesca dal Sig. A. T. (datata 5 agosto 1846), pubblicata in appendice al vol. I della Bibliografia dantesca.

 

L’edizione dell’Ottimo commento della Divina Commedia L’edizione dell’Ottimo commento della Divina Commedia

 

Nel suo saggio de Batines sostiene non solo che l’Ottimo è posteriore al Lana, da cui dipende per larghi tratti, ma anche che esso costituisce un’epitome di commenti più antichi e non un’opera originale. Nel 1827, però, Torri conosce un solo testimone integrale del commento, il Laurenziano Pluteo 40.19, per sua stessa ammissione un codice molto scorretto e lacunoso: e infatti è proprio a causa di una lacuna nel proemio generale che Torri non conosce (e quindi non stampa) il passo in cui l’anonimo afferma programmaticamente di voler strutturare le sue chiose come una summa di tutti i commenti precedenti. Il passo in questione figura, trascritto dal codice Conventi Soppressi J.V.9 (già S. Marco 219) della Nazionale di Firenze, nella Bibliografia dantesca (vol. II p. 624), ed è probabilmente dopo averlo visto lì che Torri appone la seguente nota sull’esemplare del primo volume dell’Ottimo su cui comincia ad apportare le correzioni per una mai realizzata seconda edizione dell’opera:

 

L’edizione dell’Ottimo commento della Divina Commedia

 

"Questo proemio è parziale per la prima Cantica, ma non universale pel Poema, come desumesi averlo fatto l’autore nel proemio al C. XVII del Paradiso; <ma> Tale mancanza non fu avvertita dal Bandini nella sua descrizione del codice da noi riportata nella Prefazione, pag.XI" (Ott. comm., vol. I p. [1] [numerazione recente a lapis sull’esemplare del fondo “A. Torri”, colloc. 863.7 A411 AT [1])

 

Per quanto riguarda la questione della datazione, invece, Torri non ha scusanti. Ancora oggi la datazione dell’Ottimo commento si basa (anche) sulla chiosa a If XIII 144, in cui l’anno del crollo di Ponte Vecchio, il 1333, è detto «prossimo passato». In quel punto però il manoscritto usato da Torri legge «mille trecento ventitrè»: errore che, sebbene contraddica palesemente la «verità della storia» e sebbene fosse già stato segnalato da Dionisi nell’Aneddoto V (p. 86) – e poi di nuovo da de Batines nella Bibliografia dantesca (vol. II p. 593 n. 3) –, nell’edizione Torri passa in giudicato, permettendogli anzi di affermare la maggiore antichità in assoluto dell’Ottimo rispetto agli altri commentatori.
Dal canto suo, de Batines alza la datazione dell’Ottimo addirittura a dopo il 1351, in base al riferimento a quell’anno presente nella chiosa a Pg XXIII 97: oggi sappiamo che si tratta di un’aggiunta posteriore del codice Laur. 40.19, e dello stesso parere si professa anche Torri, che nell’edizione appone la seguente nota:

 

"Anche da questo passo è forza conchiudere, che altra mano abbia fatto delle aggiunte al lavoro dell’Ottimo Commentatore, il quale deve averlo finito assai prima dell’epoca qui citata, per quanto desumesi dalla sua chiosa al v. 115, Canto XIX. Inf. (Ott. comm., vol. II p. 441 nota *)"

 

– chiosa che riporta all’anno 1333; e nella lettera a Bernardoni per il volume del 1846 torna ad affermare, in trasparente polemica con de Batines, che «nessuno de’ Comentatori può riguardarsi [...] anteriore all’Anonimo, checché ad altri ne sembri», e che gli indizi apparentemente contrari si spiegano in realtà col fatto che, per l’appunto, il suo testo «in più luoghi fu interpolato dai copisti, i quali vollero impinguarlo colle chiose di successivi interpreti». [2]
Evidentemente stizzito, nella Lettera al sig. Prof. Enrico Bindi di Pistoja de Batines prima sceglie la via dell’ironia, presentandosi come un «povero bibliografo» al cospetto di un «pregiato filologo», poi accusa Torri di aver approfittato della circolazione del suo saggio «due mesi avanti» l’uscita degli Studi inediti su Dante Alighieri per «fare aggiunte e correzioni» al proprio articolo. Infine, forte della sua maggiore competenza in merito alla tradizione manoscritta dell’Ottimo, afferma che quelle che per Torri sono aggiunte posteriori affidate ai margini del Laur. 40.19, vanno invece considerate parte integrante del testo e quindi prova di una datazione più alta, perché

 

"s’egli [scil. Torri] vide solamente il Codice della Laurenziana, io ne ho visti nelle Biblioteche Fiorentine altri sette, i quali contengono tutti letteralmente i medesimi luoghi, non in margine, ma ben inclusi nel corpo del Comento, e [...] tutti questi Codici provengono da diversi copisti, e quasi tutti da copie diverse[.] (Misc. 28 no 46, p. 4)"

 

‒ e in corrispondenza di questo passo Torri annota, a ragione: copie diverse, sì, «ma posteriori a quella [scil. del Laur. 40.19] che aveva in margine la postilla ch’io ritengo passata quindi nel testo. A. T.».

 

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Nella disputa interviene poi, quasi in qualità di arbitro, il filologo tedesco Karl Witte, con una Lettera a Seymour Kirkup su Quando e da chi sia composto l’Ottimo comento a Dante (Lipsia, Appr. Ambr. Barth., 1847, ma datata 20 novembre 1846) rilegata nella Miscellanea 10 (no 2). Witte contesta sì al de Batines l’originalità della chiosa a Pg XXIII 97 e dunque la datazione dell’Ottimo a dopo il 1351 (sostenendo quella al 1334), ma è chiaramente sbilanciato a suo favore, se afferma di essere stato spinto a scrivere la Lettera proprio dall’«insigne opuscolo» del bibliografo francese Del comento su la Divina commedia appellato l’Ottimo e di quello attribuito a Iacopo della Lana. D’altra parte, a Torri Witte contesta non solo la datazione al 1323 e l’opinione secondo cui l’anonimo avrebbe scritto il commento da giovane e sarebbe stato un religioso (avanzando l’identificazione, poi a lungo fortunata, con Andrea Lancia), ma contesta soprattutto la validità del testo critico allestito nell’edizione. Dal momento che

 

"egli è certissimo che ’l codice Laurenziano (XL.19.), dal quale il Professore Torri tolse il testo da lui stampato, rappresenta assai infedelmente l’opera originale[.]" (Misc. 10 no 2, p. 17)

 

quello di Torri, per quanto «ottimamente merito di tutti gli studj Danteschi», è un

 

"lavoro che, se riuscì meno perfetto di quello che forse si sarebbe potuto desiderare, certamente impone l’obbligo al nuovo editore (Sign. Francesco Cerrotti a Roma) di corregger li non pochi errori e di riempir le molte lacune." (Misc. 10 no 2, p. 2)

 

Sia detto per inciso che l’edizione di Francesco Cerrotti, sottobibliotecario della Corsiniana, annunciata anche nella Bibliografia dantesca come «parte di una collezione di antichi Testi di lingua pubblicata a Roma dal sig. Ottavio Gigli», non verrà mai realizzata.
Le riserve di Witte sul lavoro di Torri risalgono comunque già al 1829, all’indomani dell’uscita dell’edizione, come rivela una sua lettera del 10 dicembre di quell’anno in cui, dietro lo schermo di un tono modesto e cordiale, non gli risparmia critiche di sostanza. Innanzitutto, Torri è colpevole di disinteresse nei confronti del suo pionieristico saggio Die beiden ältesten Commentatoren von Dante’s Göttlicher Komödie – Witte dice di non ricordare se egli, non sapendo il tedesco, si sia preoccupato di chiedergliene una traduzione o meno –, saggio che invece, dimostrando la posteriorità dell’Ottimo rispetto al Lana, gli avrebbe ad esempio evitato l’errore di affermarne l’assoluta antichità. Peggio ancora, il testo critico dell’Ottimo è pieno di errori:

 

"[...] m’impone ancora di darle il mio parere intorno ai passi di cui la lezione mi sembra sbagliata. Mancante come sono d’ogni mezzo, che aiutar mi potesse, e pur troppo fuori d’esercizio negli studi di questa fatta, la sola servitù che le professo mi dà l’animo d’offrirle li qui racchiusi saggi d’emendazioni al Purgatorio. In caso che fossero compatiti da V. S., mi farei un pregio d’aggiungervi le non poche correzioni che mi sembrano da farsi nell’Inferno, credendo che lo studio particolare ch’ella, se non isbaglio, volle porre al Paradiso, mi dispensi di farvi sopra le mie osservazioni. [per l’allestimento del testo critico del commento al Paradiso, infatti, Torri si serve anche di un altro manoscritto, il Laurenziano Pluteo 40.2, scoperto dallo stesso Witte] Certamente non saprei immaginar più bella lode di queste mie fatiche, che s’ella le giudicasse degne della stampa; bramerei però che non andassero scompagne d’altre emendazioni da farsi, o forse già fatte, da quei valenti Italiani, che di tante immondizie già purgarono gli antichi autori[.]" [3]

 

Torri non pubblicherà mai gli emendamenti di Witte al Purgatorio – mentre invece raccoglie nell’appendice al primo volume, contrassegnate dalle rispettive iniziali, le correzioni all’Inferno che il filologo tedesco e l’amico Luigi Muzzi gli avevano già fatto avere, e per le quali li ringrazia nella prefazione; quanto alla velata accusa di malafede («o forse già fatte»...), si noterà che nel 1830, rispondendo a un severo recensore dell’edizione, Torri non si perita di citare il passo della lettera di Witte “purgandolo” di tutta la parte esplicitamente negativa e “aggiustando” la frase in questo modo (in corsivo):

 

"Mi sia dunque permesso di confessar ingenuamente, che quanto più mi sono internato in quel suo lavoro, tanto più ne ho ammirato l’instancabile diligenza, non mai tediata dalle prolisse filastrocche di rancido scolasticismo, che il Comentatore tratto tratto ci regala. Oltre di questo, non volendo ella [scil. Torri] contentarsi delle prime sue cure, aggiunse di assai belle osservazioni in quelle laboriosissime Appendici." (Misc. 28 no 8, pp. 3-4)

 

Il recensore in questione è Giovan Battista Picciòli, che nel 1830 mette insieme una nutrita serie di emendamenti al testo critico di Torri nel suo Saggio di correzioni all’Ottimo Commento della Divina Commedia (Firenze, nella Tipografia all’Insegna di Dante), oggi riprodotto in appendice all’ed. anastatica dell’Ottimo):

 

"In un secolo, siccome il nostro, in cui lo studio della toscana favella, e quel di Dante sono divenuti quasi di moda, non poteva non essere generalmente desiderata l’edizione d’un’opera, che alla doppia illustrazione serve e dell’uno, e dell’altro; vogliamo dire l’Ottimo Commento della Divina Commedia. Colla Pisana Edizione si appagò finalmente il comun voto; ma solo in parte: poiché il trascurato modo con cui fu quella eseguita lascia ancor molto a desiderare. Di fatti gli errori dell’antico copiatore del Codice uniti a quelli del moderno Editore vi abbondano [...]. I secondi sono, quali esser doveano gli errori d’un Editore di Testi antichi, che toglie, cangia, ed arbitrariamente corregge quanto, o non gli piace, o non intende." (pp. 3-4)

 

In effetti, leggendo le dichiarazioni di metodo che Torri affida alla propria prefazione, l’aggettivo «trascurato» si rivela calzante – e non è nulla rispetto ad esempio ai successivi giudizi di Luigi Rocca («scellerata edizione») [4] o di Giuseppe Lando Passerini (da «far vergogna alla dantofilìa e alla editoria italiana»). [5]
Di fronte alle molte «storpiature» e alle «sconcordanze grammaticali d’ogni sorte» che incontra nel suo manoscritto Laur. 40.19, e in mancanza dell’«appoggio autorevole di altri Codici», Torri non si fa scrupolo di intervenire a correggere «per via di raziocinio», ovvero ope ingenii, appoggiandosi all’autorità del suo concittadino Scipione Maffei, «il quale fermò questa massima, “che a mal partito sarebber le buone lettere, se non si potessero emendar mai gli autori antichi se non per manuscritti”». Nel far questo, Torri rivela un atteggiamento orientato al lettore, lo stesso che sarà poi evidente anche nell’edizione delle opere minori di Dante [>>]. Per quanto riguarda l’allestimento dell’apparato critico, ad esempio, sceglie di non riportarvi

 

"gli errori [...] evidenti in quanto ai nomi di luoghi e di persone [...]: ché troppo nojosa ed inutile cura sarebbe stata il dare la serie interminabile di tali sfiguramenti; e come a nessun merito ci saremmo ascritti il dover positivo di toglierli, poco o nulla sarebbe importato al Pubblico il sapere, p. e., l’essersi da noi corretto Asantipa in Xantippe, Tessaglia in Farsaglia, Attalante in Atlante [...] come scrissero gl’idioti copisti, con tante altre simili bruttissime sconciature[.]" (Ott. comm., vol. I p. VI-VII)

 

– mettendo così sullo stesso piano, però, casi affatto diversi come solo quelli di varianti (Attalante per Atlante) e di veri e propri errori (Tessaglia per Farsaglia).
Orientata al lettore è anche la scelta di «togliere ogni rancidume esteriore alle parole», cioè di adattare la grafia del manoscritto alle norme ortografiche moderne, stampando ad esempio fece in luogo di fecie – ma anche senza e ha anziché sanza e hae, che non sono più fatti solo grafici: non bisogna prestare orecchio, infatti, al

 

"dire di taluni, doversi rispettare quella ruggine della vecchia età, perché serve alla storia dei principj e dei progressi della lingua; mentre può rispondersi, che di scritture così acconciate non mancano esemplari, a chi soprattutto fa caso di cosiffatti cimelii; e non fu nostra intenzione di aumentarli, ma sì di render più gradevole anche agli occhi e all’udito la lettura di quest’Opera." (Ott. comm., vol. I p. X)

 

Il Saggio di Picciòli dà il via a un’accesa disputa, che si articola nella Risposta di Torri alle osservazioni del sig. G.B. Piccioli all’Ottimo Commento di Dante (Pisa, Nistri, 1830) e in una successiva Risposta di Gio. Battista Picciòli al signore Alessandro Torri (Firenze, Pagani). Nella Miscellanea 28, in cui è rilegata la Risposta di Torri (no 8), i due interventi di Picciòli sono presenti solo coi rispettivi frontespizi: sul verso di quello del Saggio Torri annota:

 

"Ho staccato il satirico opuscolo del Picciòli, interfogliandolo per replicare, non alle sue villanerie, ma alle pretese correzioni, in aggiunta alla Risposta mia da Verona, ed alla successiva Risposta sua. V. no 9." (Misc. 28 no 7) [6]

 

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In realtà la risposta di Torri è soprattutto un’autoapologia, improntata per altro ai toni superbi e arroganti di chi sente di potersi approfittare di un illustre sconosciuto qual è un bibliotecario della Magliabechiana, diversamente da quanto invece potrà fare contro un bibliografo e un filologo di statura europea. Fin dall’inizio il saggio di Picciòli è presentato non come un lavoro provvisto di dignità scientifica, ma come un «libello» con cui l’oscuro autore «cerca (se fosse da tanto) di denigrarmi in tutta la Letteraria Repubblica», come una calunnia gratuita contro chi, come Torri, non solo non l’aveva mai offeso ma nemmeno lo conosceva: ragion per cui egli intende «esaminar la cosa per la parte morale». Tanto per cominciare: chi è questo Picciòli? «Nella fabbrica dell’edifizio delle Lettere Italiane, [...] è egli architetto, o manovale?». Picciòli non è che uno degli «spolveratori degli scaffali della Magliabechiana», non ha né «dritto, né veste, come uomo letterato», ragion per cui non si può permettere di criticare il lavoro di un rappresentante della «Letteraria Repubblica»:

 

"Aspetti d’avere composto cento sole pagine degne di andar del paro con quelle Opere gloriose, che per ora egli è solo destinato a copiare quando i Sorci glie ne offriran la bisogna; e dopoché l’Italia lo avrà salutato per Autore, allora s’impanchi a scrivere, e correggere altrui." (Misc. 28 no 8, p. 18)

 

Ma poniamo pure – prosegue Torri – che si tratti di un «pezzo grosso in spe»: anche in questo caso il suo comportamento «ripugnerebbe alla morale» e ai «doveri del viver civile», perché Picciòli lo attacca alle spalle, pubblicando il Saggio mentre egli si trova a Verona per motivi di salute e non può quindi «sollecitamente» difendersi – oltre tutto facendo così «gran torto a’ suoi cittadini, essendo la gentilezza e la cortesia pregi esclusivi della sua bella patria» Firenze.
Infine, la cosa più eclatante:

 

"Infine vorrei scusarlo per la parte morale, se io mi fossi presentato al Pubblico con arroganza; se biasimato avessi alcuno tra’ suoi: se fossi entrato a mietere ne’ campi già seminati da altri: ma no. Son quattrocento anni che è noto il MS. Nessuno si è preso cura di pubblicarlo: giaceva là quasi abbandonato: e quando io mi procuro i mezzi di darlo in luce; v’impiego quanto so e posso di fatica e di studio; quando infine ottengo il compatimento d’uomini dottissimi: senza provocazione, senza causa, or barattandomi in mano le carte, or notando inezie, or facendomi colpa di quel che colpa non è, deve vedersi lo scandolo di un rattoppa-libri, che m’attacca, m’ingiuria; e mi obbliga quindi mio malgrado a richiamar gli sguardi su quanto fecero gli Editori Fiorentini, per mostrare che quanto ho fatto io era proprio dell’umana natura; perché tutti quanti sono, anche in migliori circostanze, hanno fatto men bene di me!" (Misc. 28 no 8, p. 18)

 

Picciòli, cioè, avrebbe fatto tanto e tale da non lasciargli altra scelta se non quella, spiacevolissima, di mettersi a confronto con altri editori di testi antichi, additando, per ciascun errore che gli viene imputato, i più e più errori da loro commessi. Per la verità, Torri non si prende nemmeno la responsabilità diretta di questa operazione: all’inizio della Risposta, infatti, inscena un dialogo con un anonimo amico che, indignato, non può trattenersi dal comparare i (presunti) «venticinque soli falli» contati da Picciòli in tutto il primo volume dell’edizione Torri con i «venticinque falli, veri e inconcussi», da lui stesso riscontrati solo «nelle prime DIECI pagine» dell’edizione delle Istorie fiorentine di Giovanni Villani allestita da Remigio Fiorentino nel 1559 (!).Per nulla in imbarazzo – al contrario di quanto vorrebbe far credere –, Torri non solo mette in appendice una tavola di «emendazioni alle prime Dieci pagine delle Storie di Giovanni Villani, edite da Remigio Fiorentino: Venezia 1559», ma prosegue con altri esempi di edizioni imperfette, e si giustifica così:

 

"Né dicasi che i falli altrui non iscusano i proprj: perché quando i falli son commessi da uomini sommi, divengono anzi la prova più certa, che non dipendono da ignoranza o da incuria, ma che derivano dalla umana natura: perché non si possono veder tante cose ad una volta; perché nel lungo lavoro la mente si stanca; perché qualche voce passa inosservata; perché la gran farragine degli errori corretti ravvolge e trae con sé qualche emendazione non fatta. E chiunque ha senno, istruzione e buona fede, questa sola difesa basterebbe a scusarmi." (Misc. 28 no 8, p. 10)

 

Non solo: continua ad aleggiare lo spettro di una certa malafede. Torri doveva rendersi conto dei punti di debolezza del suo lavoro, e forse sapeva che Picciòli aveva ragione. Non si spiegano altrimenti le molte formule di captatio benevolentiae che compaiono già nella prefazione all’edizione (indirizzata «ai lettori benevoli»): ad esempio quella che segue, in cui, ben prima di poter incolpare Picciòli, Torri si fa scudo degli errori di Manuzio editore di Teocrito:

 

"[...] confidiamo che i lettori benevoli ci saranno indulgenti sul di più ch’era da farsi, considerando il moltissimo già fatto; e che vorranno condonarci i falli in cui fossimo caduti per difetto di cognizioni, d’alcuni dei quali ci ritrattammo ingenuamente, come ci fu dato di avvedercene. Quando Aldo stesso, quell’aquila degli editori, lasciò correre nel suo Teocrito gli errori a lui rimproverati dal Didot, conviene persuadersi dell’estrema difficoltà di trarre senza mende dagli antichi e scorretti manoscritti gli Autori, che si danno a stampa per la prima volta[.]" (Ott. comm., vol. I p. IX)


[1] Il testo del biglietto è riprodotto da Torri sul «Foglio di Verona» no 36 del 30 novembre 1829, in calce a una versione aggiornata dell’annuncio di stampa del 1826 (e poi nella sua edizione della Vita nuova, Livorno, Vannini, 1843, p. XXIV n. 24).

[2] Sul frontespizio del saggio di de Batines (Misc. 28 no 45) si trova rimando a penna a questa nota e alla Postilla di p. 129.

[3] Cfr. Abd-El-Kader Salza, Dal carteggio di Alessandro Torri. Lettere scelte sugli autografi e postillate, Pisa, Nistri, 1897, pp. 20-21.

[4] Cfr. Di alcuni commenti della “Divina Commedia” composti nei primi vent’anni dopo la morte di Dante, Firenze, Sansoni, 1891, p. 342.

[5] Cfr. La vita di Dante, Firenze, Vallecchi, 1929, p. 382.

[6] Sul verso del frontespizio della Risposta di Picciòli (no 9) si legge: «Vedi la mia nota a tergo del frontespizio del Saggio di correzioni del Picciòli all’Ottimo comento registrato al no 7».